Serial killer: i mostri d’Italia visti da vicino.
E raccontati da Massimo Picozzi
di Antonio Rossitto
Il male esiste? Era questa la domanda che si ripeteva mentalmente Massimo Picozzi una nebbiosa giornata d’inverno del 1983. La notte in cui oltrepassava per la prima volta i cancelli blindati di un carcere. Un giovane medico fresco di laurea, a cui bastò poco per capire che le cose erano diverse da come aveva letto sui libri. Venticinque anni dopo, Picozzi è diventato uno dei criminologi più noti d’Italia. È entrato e uscito da decine di penitenziari. Ha incontrato da vicino serial killer, delinquenti di ogni foggia, assassini per caso. Il 6 maggio uscirà per la Mondadori Un oscuro bisogno di uccidere: il racconto di dieci celebri fatti di cronaca nera di cui si è occupato come consulente o perito. Un giorno prima, il 5 maggio, su Raidue andrà in onda la prima puntata della nuova trasmissione condotta da Picozzi: “La linea d’ombra”, titolo mutuato dal celebre romanzo di Joseph Conrad. Nove serate in cui si parlerà di storie che hanno in comune un confine notoriamente incerto: quello tra follia e normalità. Lo stesso confine su cui investiga il nuovo libro del criminologo.
“Dopo 15 anni mi illudo di scorgere la differenza tra persone sane e malate” dice Picozzi. “Non è però facile: in un crudele assassino c’è sempre qualche traccia di ordinarietà, e viceversa”. Si arriva a questa conclusione leggendo “Un oscuro bisogno di uccidere”. Ritratti di assassini incontrati realmente. Casi in cui non è importante sapere chi ha ammazzato, ma perché lo ha fatto. Dati raccolti nelle perizie diventano capitoli appassionanti e divulgativi. C’è la vita di Angelo Izzo: il mostro del Circeo che quasi trent’anni dopo, inspiegabilmente ferito nell’onore, uccide una madre e la figlia di 14 anni. C’è la follia mascherata da trasgressione delle Bestie di Satana. La partita a carte con la vita di un giocatore incallito come Michele Profeta, il killer di Padova. Le turbe di Sonya Caleffi, che vorrebbe essere una brava infermiera e invece diventa l’angelo della morte per cinque suoi pazienti. Il male esiste. Picozzi adesso ne è convinto più che mai.
Angelo Izzo
L’ultima visita a Izzo è quella del 25 settembre (…). Lui parte dalla sua famiglia, il padre ingegnere morto da poco, la madre nobildonna e casalinga, due sorelle e un fratello. Rispetto a loro si è sempre sentito più importante, destinato a qualcosa di più che seguire ideali piccolo borghesi, e nell’adolescenza il modo più efficace per affermarsi gli pare quello della trasgressione e della violenza (…). Un giorno, che è ancora un ragazzo, una squillo d’alto bordo ha il coraggio di mortificarlo, e lui si presenta alla sua porta all’indomani, e la accoltella. A 16 anni uccide un ragazzo di 19, sparandogli al petto con un fucile per poi appoggiarlo accanto al corpo e far credere che si tratti di un suicidio. Il racconto di Angelo Izzo continua, con tutta una serie di storie di pestaggi e stupri, ed è difficile dire quanta verità ci sia nelle sue esibite esternazioni (…).
La storia con Maria Carmela e Valentina s’inserisce perfettamente nel quadro che Angelo Izzo presenta di sé, del suo modo di sentire e vivere (…). Le prende per qualche tempo a benvolere, diventa per loro il boss cui basta schioccare le dita per dispensare favori. Nessuno sfondo sessuale, qualcosa di poco conto l’ha fatto con la madre, ma nulla con la bambina. Non è in quella chiave che è maturato il duplice omicidio, lo ribadisce più volte nel corso degli incontri. Piuttosto Maria Carmela è diventata pian piano sempr più soffocante, con la sua presenza, le sue richieste, e lui, a un certo punto, ha avuto l’impressione che pensasse perfino di controllarlo, di gestirlo.
Figuriamoci! Una poveraccia che credeva di ottenere ciò che voleva da Angelo Izzo, l’uomo che conosce i segreti delle stragi di stato, capace di influenzare politici e imprenditori. E che ora, approfittando della semilibertà, sarebbe diventato il “Re di Campobasso”. Non è possibile portarsi appresso una palla al piede così, una che magari sarebbe stata anche capace di ricattarlo. Perché alla donna ha pure raccontato d’alcuni progetti criminali che sta per attuare, come il rapimento a fini d’estorsione di un ricco gioielliere, e Maria Carmela improvvisamente si è mostrata per quello che era. Non una servile e riconoscente amica, ma piuttosto una noiosa e pericolosa profittatrice. Per lui, per Angelo Izzo, non esistono mezze misure in casi come questi. Chi si è dimostrato irriconoscente in qualche modo è come se lo avesse umiliato. E chi umilia Izzo deve morire.
Sonya Caleffi
Lei arriva, saluta un po’ intimorita tutta quella gente che è lì per sezionare la sua vita e la sua mente, e subito inizia. E spiazza tutti. Perché racconta di un fatto gravissimo, che le è successo da poco, qualche giorno prima. Era piantonata in una celletta costruita apposta dentro l’ospedale di Como, quando un agente di custodia aveva approfittato di un momento in cui era solo in servizio. L’aveva fatta uscire, e in un angolo, costretta a un rapporto sessuale. Qualcosa di inaccettabile che merita un’immediata denuncia. Ammesso che sia dimostrato, e la conferma non ci sarà mai, perché quell’episodio non è mai avvenuto. Ma non si tratta di un banale e ingenuo tentativo di imbrogliare, piuttosto di un sintomo. Perché, scopriremo, Sonya è costruita proprio in un modo particolare, e per capirlo bisogna partire dalla sua storia (…).
A 12 anni arriva la prima battuta d’arresto. È più alta delle compagne di scuola, e si è anche sviluppata, prendendo le forme di una donna. La prendono in giro per questo, e Sonya trova un rimedio: smette di mangiare (…). Nell’ottobre del 1992 la ricoverano nel reparto di psichiatria di Como, dove le fanno una diagnosi di personalità dipendente, e le danno da prendere degli antidepressivi (…).
Il primo settembre del 2004 la Caleffi prende servizio all’ospedale di Lecco, prima come supplente, poi, in ottobre, vince il concorso come infermiera professionale di ruolo (…). I colleghi che le lavorano accanto sono perplessi. Pare che la nuova assunta sia un tipo strano, con sbalzi d’umore e la tendenza a stare per conto suo, a non far gruppo. Guarda con occhi fissi e chi le parla non riesce mai a capire se stia ascoltando o pensando ai fatti suoi. Passa dalla calma più assoluta a scatti di nervi, da un modo d’essere servile a quello opposto, brusco e arrogante (…). L’impressione che dà è quella di una infermiera poco preparata e poco professionale, poco pratica e affidabile, incapace di gestire le emergenze e di rispettare i protocolli di assistenza. Un giudizio pesantissimo, e proprio sull’unico campo in cui Sonya pensa di valere qualcosa, quello del lavoro, del suo lavoro d’infermiera. È il preludio alla tragedia, che si consuma nel giro di poche settimane.
Elisabetta Ballarin
Comincio con Elisabetta, il 14 aprile del 2005, nella stanza dei colloqui riservata ai magistrati nel carcere di Monza (…). Quando si mette con Andrea, un ragazzo di venticinque anni, tossicodipendente, Elisabetta ne ha solo quindici. Sei mesi dopo già si fanno insieme di cocaina ed eroina (…). Mariangela Pezzotta, la vittima, entra nella storia perché è l’ex fidanzata di Andrea, e i due non si sono mai persi di vista. Tanto che la sera del 23 gennaio 2004 Mariangela passa a trovare il ragazzo, perché deve riportargli una videocassetta.
Elisabetta sta sistemando la cucina, e se la trova in casa, seduta al tavolo a chiacchierare, ma non è l’unica cosa strana. Di strano c’è pure l’atteggiamento di Andrea, nervosissimo, che la allontana dicendole di andare a preparare due speedball, cocaina ed eroina mescolate insieme. Elisabetta se ne va perplessa, pensando a perché due e non tre dosi, visto che c’è un’ospite, e sta dividendo la polvere nella stanza accanto quando sente il rumore assordante di uno sparo (…).
Il miscuglio di droghe che i ragazzi hanno in corpo fa sembrare tutto un incubo, tanto che Elisabetta comincia a vedere dappertutto i lampeggianti blu della polizia. Poi, a fianco, le compare Mariangela, con la faccia piena di sangue (…). Allucinazioni, solo allucinazioni che mettono il panico addosso, e che cerca di scacciare inghiottendo manciate di Tavor. Deve scappare via da quel posto maledetto, e allora sale sulla sua auto e parte, ma finisce subito per sterzare dietro a una curva che non esiste. La macchina s’incastra, non va né avanti, né indietro, mentre Elisabetta, che non ce la fa più, appoggia la testa sul volante, e si lascia sprofondare nel buio (…). Difficile stabilire quanto ci sia di vero nel racconto della ragazza. Perché le indagini diranno che l’omicidio non è stato il risultato di un colpo partito per sbaglio, che Mariangela non è morta per caso, piuttosto è stata eliminata come un testimone pericoloso, una che sapeva troppo dei segreti delle Bestie di Satana.
Michele Profeta
Il primo sms arriva alle 19.45. Solo un numero, “12″. E nove minuti più tardi: “La linea tel può essere controllata solo mex. Potrei avere bisogno d te domani sera intorno alle 23 vicino al vekkio appiani. Ripeto solo mex se non in mona”. Tocca a me dettare la risposta. Il tono e il contenuto delle lettere di estorsione che mi hanno mostrato in Questura suggeriscono che ho di fronte un uomo, di mezza età e buona cultura. non un malato di mente, piuttosto qualcuno con aspetti narcisistici importanti, e pure tratti paranoici da non sottovalutare (…).
Dico all’ispettore di replicare con un generico: “Come ci riconosciamo?”. Passa circa mezz’ora, sono le 20.16 quando un nuovo sms dice: “Dirigo io il gioco a modo mio o niente. Tribuna ospiti. Sarò solo. Non c sarà nex a quell’ora. C riconoscemo. Accontentati”. È il momento di lasciare al killer la sensazione che abbia il controllo. Niente sfide, ma senza apparire troppo remissivi. Potrebbe interpretarla come una provocazione, o peggio come una presa in giro. “Ok gioco condotto da lei. Mi interessa conoscerla. Faccia capire con un particolare che lei è la persona giusta. La sua determinazione mi preoccupa. Posso fidarmi?”.
Alle 20.58, di nuovo il killer. “Fidarsi è bene non fidarsi è meglio si dice… Io non mi preoccupo mai sta in te devi giocare bene le tue carte (k-j-q-a) x l’incontro aspettiamo. C vuole pazienza” (…). Provo lo stesso a tenere aperta la comunicazione. “Io desidererei incontrarla. Aspetto un suo messaggio”. L’ultimo messaggio mi arriva alle 21.54. “Sei molto curioso… La cosa è troppo improvvisata ci vuole tempo. buona notte. Ps la curiosita? Non porta a nulla ricordalo sempre!”. Per questa volta può bastare. Sono stato in compagnia di un serial killer per più di due ore, le due ore più lunghe di tutta la mia carrie